Professor Sartori, si goda la pensione!

Professor Sartori, si goda la pensione!

14 Agosto 2012 1 Di Life

Si può anche avere (alle spalle, ormai) un passato più che dignitoso come accademici, ma questo non impedisce di sparare immani cavolate tutte le volte che ci si improvvisa “esperti” di campi poco o punto pertinenti col proprio.

È quel che accade, da qualche anno a questa parte, puntualmente al professor Giovanni Sartori ogni volta provi a deliziarci con editoriali che con la scienza politica nulla hanno a che spartire. Il vero guaio, poi, è che le sconclusionate tesi di cui si fa portatore vengono pubblicate sul Corriere della Sera, mica su L’eco di Paperopoli!

Un fatto, i ridicoli editoriali di Sartori, unito all’altro, che sia cioè il Corriere a far da cassa di risonanza a tali ridicoli editoriali, che dà esattamente la misura del baratro in cui ormai giace il “Belpaese”. Forse pecco di eccessivo ottimismo immaginandolo, ma credo che in qualsiasi altro paese al mondo (escludendone i pochi di cui oggettivamente si possa dire che stanno come o peggio del nostro) ci si sbarazzerebbe della questione con un suggerimento: Professore, si goda la pensione e cerchi di tenersi a debita distanza da una materia che le è completamente sconosciuta!

Nell’ultima sua fatica, Sartori prova a dimostrare che sarebbe sbagliato inferire da quel appare (la mancanza di moneta o di “soldi”, come li chiama lui) l’origine della crisi attuale e che molto più sensato sarebbe, per spiegare appunto la crisi, puntare che su quel che appare come meno evidente (la mancanza di lavoro).

Dice Sartori che la ricchezza è sempre stata prodotta dal lavoro (chi l’avrebbe mai detto?, davvero insostituibili le sue intuizioni!), prima da quello agricolo, che ne produceva ben poca, e poi da quello industriale, che cominciò a produrne in misura mai vista prima. Tutti vivevano felici e contenti quando, all’improvviso, alcuni pazzi “sociologi diffusero l’idea che alla società industriale stava subentrando la «società dei servizi»”. Si era negli anni Sessanta e “la società dei servizi era, appunto, una società post industriale, non più di macchine e di fabbriche ma di uffici.”

Sarà perché negli uffici ci stanno i condizionatori d’aria, fatto sta che da allora, secondo il professore, il mondo ha cominciato ad andare a rotoli. Vi starete chiedendo: Perché? Beh, lasciamola al professore la risposta (davvero imbarazzante):

La differenza più importante tra le due (nelle rispettive conseguenze) è che i conti della società industriale erano facili: sapevi sempre se e quanto guadagnavi o perdevi. Invece i conti della società dei servizi, e più esattamente la produttività dei servizi, è difficile da misurare.”

Quindi, secondo Sartori, al quale nessuno deve aver mai chiarito che non esiste alcuna differenza tra beni materiali (manufatti) e beni virtuali (servizi), sarebbe pressoché impossibile fare il calcolo economico (“è difficile da misurare”) delle società di servizi.

Si tratta di una panzana indegna di qualsiasi studentello alle prese con l’abc dell’economia, ma la dice lunga sulla reale condizione di alfabetizzazione (meglio sarebbe dire: completa ignoranza) economica in cui versa un paese malato di statalizzazione. Sartori, infatti, confonde le società di servizi che agiscono nel pubblico e quelle agenti nel privato; le prime spesso non hanno alcun legame con i prezzi di mercato (soprattutto se operanti in regime di monopolio), le seconde devono necessariamente fare riferimento ai prezzi.

Se è vero che per le prime è impossibile fare qualsiasi calcolo economico (a dimostrarlo fu Mises all’inizio del 900), altrettanto non si può dire delle seconde. A rendere possibile il calcolo economico non è quel che si produce, il calcolo dipende dai prezzi. Con prezzi di mercato il calcolo è sempre possibile; con prezzi calcolati a tavolino dai burocrati la medesima operazione diventa impossibile.

Appare dunque fuorviante fin dal titolo, “Il lavoro che dà ricchezza”, l’articolo di Sartori. Solo uno sprovveduto in materia economica può arrivare a credere che esistano differenti tipi di lavoro, diversi fra loro a seconda di quel che producono. Il lavoro, qualsiasi lavoro, o è tale oppure non lo è. Quando non lo è, si chiama parassitismo.

Spiace sconfessare Sartori, ma non è vi è nulla di vero nella sua affermazione: “l’economia finanziaria fa fare (e anche perdere) soldi, ma di suo produce soltanto carta, fino ad approdare, oggi, alla carta-spazzatura dei cosiddetti derivati.” Sartori ancora una volta fa confusione. Provi il professore a togliere di mezzo la moneta con i suoi annessi servizi finanziari, e poi ci faccia sapere se tutto rimane come prima o se per caso si va incontro a un impoverimento generale.

Quella sua specie di ragionamento è vera solo nel caso delle banche centrali e con l’emissione di moneta a corso forzoso, quella comandata dai governi e basata sul debito. Diventa tanto vero quel ragionamento che il professore troverebbe anche la risposta a un quesito che probabilmente non si è mai posto: Come mai a Wall Street, ormai, assumono più fisici che economisti?

Professore, non è con i (falsi) luoghi comuni o con i sentito dire che si fa economia, ma padroneggiando la logica del discorso economico. Logica che fa difetto a lei come alla maggioranza degli italiani.

Lei, proprio perché impermeabile alla logica, giunge a sostenere un’altra crassa grossolanità:

Torno alla globalizzazione, che sin dal 1993 ritenni un grave errore per questa ragione: che a parità di tecnologia (già allora il Giappone, ma poi man mano Cina, India e altri Paesi ancora) l’Occidente ad alto costo di lavoro era destinato a restare senza lavoro: e quindi che le cosiddette società industriali avanzate sarebbero diventate società senza industrie. La profezia era lapalissiana, e difatti si è già avverata in gran parte per i piccoli produttori (che però sono moltissimi).”

Si legga Ricardo (in particolare la sua teoria sui vantaggi comparati) e poi ci dica se è davvero il caso di chiamare in causa il signor de La Palice. L’Europa del mercato comune è diventata più ricca proprio perché, a suo tempo, si globalizzò aprendo le proprie frontiere interne. A meno che lei ora non voglia sostenere che nell’Italia del dopoguerra il costo del lavoro fosse alto quanto quanto in Francia o in Gran Bretagna (la Germania la escludiamo per motivi dovuti ai danni di guerra), le resta da spiegare come mai una ricetta funzionante in Europa non possa funzionare sull’intero pianeta. La Palice, se proprio vogliamo chiamarlo in causa, direbbe che gli appare lapalissiano il contrario di quel che lei afferma a cuor leggero.

Serve inoltre a poco richiamare il glocalismo o la perdita di posti di lavoro in Italia. La Germania sta per superare la Cina sotto il profilo delle esportazioni, e non mi sembra che a Berlino il lavoro abbia un costo inferiore di quello pagato a Pechino.

Per paradosso, serve ancor meno, se si utilizza la sua strampalata logica, cercare una risposta alla sua domanda finale:

Ammettiamo che il governo Monti riesca finalmente a decapitare gli sprechi e le ruberie del passato. Così si troverebbe ad avere soldi disponibili, che però (data l’alta disoccupazione, specialmente giovanile) dovrebbe investire in opere pubbliche (anch’esse, sia chiaro, necessarissime). Anche così, allora, i soldi da investire per produrre ricchezza e crescita continuerebbero a mancare. Oppure no? Qualche economista mi potrebbe aiutare a capire meglio?”

La riduzione degli sprechi e delle ruberie – questa sì, davvero “necessarissima” – costituisce solo una parte del problema. L’altra parte si chiama debito pubblico ed è su quest’ultima che bisognerebbe incidere velocissimamente. Per farlo bisogna proprio evitare che lo stato si impegni nella realizzazione di opere pubbliche (che in Italia, oltre ad essere il più delle volte improduttive e parassitarie, sono anche fonte di ruberie e sprechi).

Così facendo, lo stato non sarebbe più costretto a saccheggiare le ricchezze private (per far fronte al costo crescente del debito pubblico) e queste si trasformerebbero in volano della crescita. Senza contare i capitali esteri che, attraverso una sostanziale riduzione del carico fiscale, si potrebbero richiamare sul suolo di questa dannata terra italica.

Mimmo Forleo