Il mercato come regolatore efficiente, anche in tempo di crisi (1)

30 Novembre 2011 1 Di Life

Proviamo a smascherare la Grande Falsità messa in circolazione da politici, economisti conniventi dei politici e organi di stampa, talvolta conniventi anch’essi ma, molto più spesso, semplicemente ignoranti: l’attuale crisi è di stampo “neo-liberista” e nasce dall’assenza di regole voluta dai neoliberisti.

La maniera più semplice per ribattere efficacemente ad un’accusa tanto risibile consisterebbe nel porre una domanda di ordine storico-geografico: Qualcuno, tra tanti politici, economisti e giornalisti sostenitori di detta tesi, è in grado di mostrare dove e quando si sarebbe dato tutto questo “neo-liberismo” di cui cianciano?

Immagino che risponderebbero nel seguente modo: Sin dagli anni ’80, con la Thatcher e Reagan, ha preso piede il morbo neo-liberista che ha finito con l’infettare anche i leader della sinistra. Non possiamo forse definire neo-liberisti anche Blair e i suoi epigoni non britannici?

Questa discussione, di livello infimo a dire il vero, troverebbe la sua degna conclusione facendo osservare un paio di cose:

1) il liberismo prevede una riduzione del ruolo giocato dallo Stato in campo economico, che si traduce in drastiche sforbiciate alla sua spesa e nel riassorbimento del debito pubblico. Adesso, se vi riesce, provate a dimostrare il verificarsi di queste due ipotesi sotto i governi Thatcher, Reagan o di chiunque altro vi divertite a definire “neo-liberista”.

Dato che non ci riusciranno mai, l’ovvia conclusione consiste nel fatto che, dall’alto della loro notevolissima ignoranza, stanno solo confondendo tra conservatorismo e liberismo. Tanto la Thatcher quanto Reagan sono stati dei perfetti campioni del conservatorismo, che si sono limitati a prendere a prestito qualche concetto liberista allo scopo di ritardare il verificarsi dell’inevitabile: lo statalismo occidentale è destinato a implodere, così come implose quello socialista di marca orientale;

2) Blair e i suoi epigoni hanno goduto e godono, in maniera del tutto irragionevole, del vantaggio di essere definiti progressisti. Vantaggio derivante dal fatto che, senza un vero perché, il socialismo storicamente si è autodefinito, ed è stato definito, progressista.

Nei fatti, il socialismo non è altro che una variante del conservatorismo, pari a tante altre. In Italia, per fare un esempio, si è giunti a gratificare con l’etichetta progressista perfino la dottrina sociale della Chiesa, il che equivale a dire tutto. In virtù di tali gratuite definizioni, utilizzando due semplici varianti di ordine politico si è arbitrariamente stabilito che i conservatori sarebbero per il liberismo e che i progressisti tiferebbero per le regolamentazioni. In effetti la verità è tutt’altra, sia gli uni che gli altri non sono altro che degli statalisti e la loro unica differenza consiste nella quantità di regolamentazione auspicata.

Grazie a queste due obiezioni si metterebbe la parola “fine” su ogni discussione, ma non sarebbe ancora abbastanza; rimarrebbe infatti in ombra un altro aspetto, che è bene evidenziare nella maniera dovuta: il monopolio politico-decisionale di cui godono gli statalisti di ogni risma e colore.

Per descriverlo è sufficiente approntare un solo esempio ed applicarlo a due diversi scenari, quello politico e quello economico (di una economia cioè di libero mercato).

Immaginiamo che nell’epoca in cui vennero introdotte le prime automobili tutti i costruttori di carrozze, al fine di non consentire la diffusione dell’automobile, avessero costituito una lobby. Questa lobby avrebbe potuto decidere di “monopolizzare” il settore della manutenzione delle automobili e, attraverso dei manutengoli appositamente inseriti nelle officine di quel settore, reso possibile il boicottaggio del nuovo mezzo di locomozione. Il risultato sarebbe stato quello di far apparire inaffidabile l’automobile e ritardarne, o addirittura impedirne, la diffusione.

A chiunque sia sano di mente, questo scenario appare improponibile; il tentativo di monopolizzare la manutenzione delle automobili sarebbe stato irrimediabilmente mandato in fumo anche da un solo costruttore che avesse affiancato alla costruzione e vendita del nuovo prodotto la sua manutenzione. Trasferendo l’esempio sul piano politico, però, detto scenario smette immediatamente di apparire inverosimile e assume i contorni della concretezza.

Nessuno può infatti impedire al politico, convinto della superiorità in economia della pianificazione rispetto ai processi lasciati totalmente liberi del mercato, di esercitare, anche inconsapevolmente, una certosina opera di boicottaggio ai danni del libero mercato.

A me pare che, ogni qualvolta assistiamo alle assurde dispute promosse dai sostenitori della presunta superiorità della pianificazione rispetto al libero mercato, questo aspetto non venga fatto emergere con l’evidenza che sarebbe necessaria. In altre parole, i pianificatori non riconoscono che è scorretto voler stabilire confronti tra due processi in cui uno dei due è fortemente penalizzato dal potere di influenzarlo negativamente posseduto dal decisore politico. Il massimo del ridicolo, poi, viene raggiunto quando i pianificatori tirano fuori la storia delle regolamentazioni, che sarebbero necessarie per “far funzionare al meglio e correttamente” il mercato! Questo equivale a dire che una persona di sana e robusta costituzione, marcerebbe molto meglio se la si dotasse di un paio di stampelle o di una carrozzina!

Detto questo, resta da dimostrare come il mercato sia capace di autoregolarsi e non sia in grado di produrre da sé quei veri e propri orrori riconducibili all’intervento politico.
Si tratta dell’argomento che affronteremo prossimamente.

Mimmo Forleo