Il “maestro”, l’allievo e la ricetta sballata. Perché Pittsburgh non è Taranto

Il “maestro”, l’allievo e la ricetta sballata. Perché Pittsburgh non è Taranto

29 Dicembre 2012 6 Di Life

Quanti come me sono afflitti da una sorta di masochismo intellettuale probabilmente non si saranno lasciati sfuggire i venti minuti e passa di questa intervista nella quale si pretende, addirittura!, di poter riscrivere la storia del Novecento. Se i minuti a disposizione fossero stati di più è lecito supporre che neppure l’intera storia del mondo sarebbe uscita indenne dalle baggianate profferite dal cattivo allievo.

Stendiamo un primo velo pietoso su alcune cose “originali” dette dall’allievo ripetente a vita, come quella secondo la quale esisterebbe la possibilità di convertire in spesa per l’arredo urbano i fondi destinati dal governo per mettere in sicurezza il territorio, e andiamo diritti verso qualcosa che è in grado di ripetere solo sotto dettatura: la crisi dell’acciaio e il disastro ambientale di Taranto potrebbero essere brillantemente risolti se ci si disponesse a fare come a Pittsburgh.

Relativamente a questa proposta sembra perfettamente inutile bacchettare l’allievo, la cui unica responsabilità è quella di essersi prestato a fare da cattivo pappagallo di una pessima proposta venuta da un presunto maestro. Tanto vale allora giudicare sbrigativamente l’allievo per la scarsa conoscenza che ha della storia del Novecento e dedicare qualche riflessione a chi si sente di poter essere maestro, ma non è neppure in grado di tenere a freno la fantasia dell’allievo.

Cominciamo dagli errori di natura storica. Dei quali non sappiamo bene a dire il vero se siano dovuti a scarso impegno dell’allievo, oppure a un deficit conoscitivo del “maestro”.

Per conoscere sommariamente la storia di Pittsburgh e della sua industria dell’acciaio è sufficiente sbirciare Wikipedia. Là, il lettore che non abbia ambizioni di essere pure fine teorico economico e sociale, troverà materiale sufficiente per farsi un’idea circa la realtà che qualcuno vuole sovrapponibile a quella tarantina.

«A partire dai primi anni del XIX secolo la vicinanza di Pittsburgh ad importanti giacimenti di carbone e la sua eccellente collocazione fluviale (l’Ohio è interamente navigabile ed è uno dei principali affluenti del Mississippi) ne fecero una delle più importanti città industriali del mondo, specie nel campo siderurgico, il che le procurò il soprannome di Steel City (città d’acciaio).

La sua economia subì pesanti contraccolpi negli anni settanta, quando l’industria siderurgica entrò in crisi per via della recessione di quegli anni e della concorrenza di produttori non statunitensi; tuttavia Pittsburgh ne risentì meno di altre città americane grazie ad una rapida riconversione in direzione dei servizi e dell’alta tecnologia.»

Dopo aver sbirciato diventa del tutto evidente come, contrariamente a quanto sostenuto dall’allievo, a Pittsburgh prima degli anni ’70 non si sia data alcuna crisi dell’acciaio; diventa pertanto improbabile che sia sia potuto assistere già “nella prima metà del secolo” a “una rivoluzione” che avrebbe comportato una riconversione industriale della sua area.

Del resto non c’era alcun bisogno di riconvertire alcunché. Nella prima metà del secolo si erano susseguite ben due guerre mondiali, con quel che comportarono in termini di consumo di acciaio, e la crisi petrolifera che negli anni ’70 avrebbe quasi fatto collassare l’economia mondiale non si riusciva nemmeno a immaginarla. Per non dire poi del triste destino cui andarono incontro, con la disfatta nella seconda guerra mondiale, le industrie tedesche e giapponesi dell’acciaio. Per tutti gli anni ’50 Germania e Giappone furono impegnate nella corsa a ricostruire il loro apparato industriale prebellico, figurarsi se potevano impensierire i colossi americani. Solo negli anni ’70 infatti apparve nel firmamento dell’acciaio mondiale una nuova stella di prima grandezza, la Nippon Steel, e furono dolori anche per gli americani.

La grave congiuntura economica unita all’altissima produttività raggiunta nel lavoro dai nipponici, fece vacillare pericolosamente le posizioni fino ad allora ritenute solidissime di americani e tedeschi.

Detto dell’alto potere fantastico dell’allievo, in tema di esatta ricostruzione storica degli avvenimenti, passiamo adesso al setaccio le improbabili teorizzazioni offerteci dal “maestro”.

Il “maestro” sostiene che una riconversione nel senso dei servizi e dell’alta tecnologia sarebbe possibile a Taranto come lo è stata a Pittsburgh.

Dimentica però due o tre cosucce di importanza affatto secondaria: 1) a Taranto, a differenza di Pittsburgh, i capitali investiti originariamente nel settore dell’acciaio erano di natura pubblica; 2) manca pertanto una imprenditoria locale dotata delle risorse necessarie ad avviare investimenti diversificati, per non dire che probabilmente manca un’imprenditoria tout court; 3) il Gruppo Riva, oltre a non essere di Taranto, ha già avviato con scarso successo fuori dalla città investimenti di tipo diverso (si vedano, come esempio, le tristi vicende riguardanti Alitalia).

Se uniamo con delle lineette questi tre punti, ne vien fuori un disegnino disarmante: la predominanza del settore pubblico a Taranto ha prima impedito che in loco potesse nascere una imprenditoria degna del nome; poi ha causato la fuga dei potenziali capitali in mano a l’unico investitore che a Taranto, a memoria d’uomo, sia riuscito a rendere remunerativi in maniera significativa i propri investimenti, dirottandoli verso le sue convenienze (quelle del governo) del momento. Alitalia, appunto.

Adesso viene chiesta una riconversione dell’area industriale tarantina senza domandarsi: con quali soldi e, soprattutto, di chi?

Visto che suggerire non costa niente, mi permetto di offrire tanto all’allievo quanto al “maestro” un paio di consigli: 1) prima di aprire avventurosamente bocca, la prossima volta fate prima una verifica sul piano storico delle castronerie che vi scappano come se niente fosse; 2) se ancora lo conservate da qualche parte, riprendete il documento redatto in occasione del congresso provinciale del PD e date un’occhiata alla voce “Istituzione di un’area franca”. Forse è la volta buona perché riusciate finalmente a comprendere cosa vi era scritto.

Mimmo Forleo

P.S. La foto posta a corredo del post è di Gianna Del Drago.