Osservazioni (non proprio ovvie) sulla lotta all’evasione fiscale

20 Luglio 2010 0 Di Life

Sembra che destra e sinistra in Italia abbiano finalmente trovato un punto sul quale andare d’accordo: la lotta all’evasione fiscale.
L’ultima manovra finanziaria varata da Tremonti si compone di 24 miliardi di euro, dei quali circa 13 dovrebbero derivare dall’inasprimento della lotta anti-evasione. Si tratta di un modo come un altro di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Non meravigliatevi, tra poco vi spiego perché.
Nel PD, partito che giudica “ingiusta” l’ultima manovra, quasi tutti si ritrovano d’accordo con la lotta all’evasione; vi è pure chi, nemmeno tanto timidamente, ritiene che una manovra “giusta” potrebbe addirittura essere composta di sola lotta all’evasione.
Vediamo perché sbagliano, tanto la destra quanto la sinistra.

Cominciamo col dire che la lotta all’evasione fiscale è fuor di questione, neppure io mi spingo fino al punto di sostenere che essa non vada condotta. Il punto è un altro; il recupero fiscale, da parte un’amministrazione seria, non dovrebbe mai essere utilizzato per colmare buchi di bilancio o, peggio ancora, per alimentare politiche di spesa.

Ogni euro recuperato dovrebbe essere restituito a chi le tasse le paga già, tramite l’abbassamento delle aliquote d’imposta.

Cerco di rendere più chiaro il discorso e, allo stesso tempo, di esplicitare la logica ad esso soggiacente.

Assumiamo che in Italia il PIL (la ricchezza totale prodotta annualmente) sia pari a 100 (qui è indifferente specificare l’unità di misura utilizzata).
Supponiamo inoltre che la parte del PIL che finisce nelle casse statali sia pari a 50, ne consegue che la “pressione fiscale” è pari al 50% del PIL. Questo si traduce nella constatazione che esiste un’aliquota impositiva (ipotizzando che ve ne sia solo una) pari al 50% su ogni singolo reddito.

Immaginiamo ora che il PIL reale (quello cioè comprendente anche la parte che viene occultata al fisco) sia pari a 200. Con questa nuova ipotesi si avranno le seguenti due opzioni a disposizione:

1) lasciando invariata l’aliquota impositiva (che è, ripetiamo, al 50%) ne consegue che le entrate statali passano da 50 a 100;

2) variando l’aliquota, riducendola ad es. da 50 a 25, le entrate restano ferme a 50.

A questo punto un’amministrazione si troverebbe di fronte al seguente dilemma: scelgo la prima opzione, oppure la seconda?

Invariabilmente, almeno qui in Italia, qualsiasi amministrazione si orienterà verso la prima delle due giustificando la scelta in questo modo: adducendo la necessità di dover fornire più servizi, oppure sostenendo che sono da potenziare gli investimenti pubblici e gli ammortizzatori sociali (questo soprattutto in tempi di crisi, quale quello che stiamo vivendo).

Entrambe le giustificazioni, comunque, consentono alla politica di “non mollare l’osso”. Nel senso che la politica non ha alcun interesse a ridurre il proprio potere di intervento nell’ambito della spesa pubblica (sia essa destinata alla produzione di beni e servizi, oppure all’incremento di ammortizzatori sociali). L’utilità della spesa pubblica, per i politici, sta tutta nel suo alto potere di produrre clientele. E i clientes, come sapevano bene già i romani, portano voti.

Il cittadino, che poi altro non è che un cliente, si dirà soddisfatto in entrambi i casi. Salvo poi lamentarsi della scarsa moralità che circola in politica e delle troppe tangentopoli!

Come se ne esce da questa situazione. Con maggiori controlli? Non credo proprio.

La soluzione, a mio avviso, è la seguente: bisognerebbe innanzitutto convincersi del fatto che ogni recupero fiscale (in assenza di abbassamento delle aliquote impositive) a) costituisce un aggravamento del peso fiscale. Ogni euro sottratto all’evasione e destinato ad alimentare la spesa pubblica, è un euro sottratto alla domanda aggregata e all’incentivo a produrre reddito; b) produce il cosiddetto “effetto di traslazione” dell’imposta. In altre parole, ogni imposta tende a modificare il prezzo di equilibrio di un bene o di un servizio: pagare al netto dell’Iva o “più Iva” non è indifferente; pagare 100 piuttosto che 120 (100 + il 20% corrispondente all’Iva) non è esattamente la stessa cosa. L’effetto prodotto dalle imposte è il generalizzato aumento dei prezzi e, di conseguenza, anche dei costi. Lo sanno bene tutte le aziende marginali, come quelle agricole, che hanno dovuto chiudere i battenti perché non più in grado di pagare le tasse.

Mimmo Forleo