Suggerimenti di politica economica ad un partito che se ne fotterà

10 Luglio 2010 0 Di Life

Il partito, senza tanti giri di parole, è il PD e la mia certezza (che se ne fotterà dei suggerimenti) nasce dal constatare che certuni del PD preferiscono darsi alla divulgazione di comunicati stampa simil-demenziali invece di dedicarsi allo studio dell’economia. Tanto, sono convinti che la “soluzione” ai loro problemi di comprensione dell’economia gli sarà fornita da qualche nostalgico del collettivismo. Non chiedetemi i nomi, questa volta non li farò.

Conoscendo la pigrizia di alcuni lettori di Palagiano.net (Crep, in particolare), condenserò il succo contenuto in un articolo che andrebbe letto integralmente, per quanto risulta illuminante, e proporrò alcuni suggerimenti che dalla lettura di quell’articolo emergono implicitamente.

L’articolo in questione va inscritto nella diatriba sollevata da una recente “lettera degli economisti” di cui ho dato conto anche su Palagiano.net e costituisce la replica (controfattuale) ad un passo contenuto nella “lettera”, il seguente:

“questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori”

Tabelle alla mano (quelle fornite dall’OCSE), viene facile smentire l’assunto che è posto in premessa della lettera e da cui gli “economisti” fanno derivare tutta una serie di deliranti osservazioni e “soluzioni”.

Un primo grafico (quello sulla “Produttività del lavoro”) indica chiaramente che in sei delle principali economie mondiali (USA, Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia e Giappone), dal 1970 ad oggi, la produttività è costantemente cresciuta con un’unica eccezione riguardante l’Italia. L’Italia, dal 2000 in poi, ha visto la propria produttività ristagnare.

Il secondo grafico (detto del “Labor share”, vale a dire la quota di PIL distribuita al lavoro dipendente) indica che la distribuzione del reddito è cresciuta proporzionalmente al PIL in tutti i paesi ad eccezione di Giappone (dove, dal 1990 in poi, è cresciuta più che proporzionalmente), Germania (in cui è cresciuta costantemente in maniera meno che proporzionale alla crescita del PIL) e Italia (dove, fino al 2000, si è avuto lo stesso trend che in Germania e dove, dal 2000 in poi, si è verificata una crescita “giapponese”).

Unendo i risultati dei due grafici, ne vien fuori che l’assunto degli “economisti” non sta né in cielo e tantomeno in terra. Inoltre, stante il ristagno della produttività del lavoro in Italia dal 2000 in poi, si scopre che i salari italiani sono cresciuti più di quanto siano mediamente cresciuti altrove.

Gli “economisti”, comunque, continuano a sostenere che assistiamo a una “declinante capacità dei consumi de[i]… lavoratori”. Cosa significa?

Visto che in termini assoluti è dimostrabile il contrario (cioè, che quella capacità di consumo si è anzi accresciuta), proviamo a ragionare in termini relativi.

Per farlo introduciamo due nuove tabelle: 1) quella relativa ai “Capital share” (quanto del PIL è assorbito sotto forma di rendimento delle proprietà immobiliari, profitti e interessi) e 2) la “Government share” (imposte e tasse sulle persone fisiche e giuridiche).

Dalla disamina delle due tabelle scopriamo cose molto interessanti.

Dalla prima (capital share) scopriamo che i “capitalisti” italiani sono quelli che stanno meglio di tutti gli altri: in nessuno dei restanti cinque paesi presi in esame i “Capital share” sono in grado di assorbire una percentuale del PIL pari a quella che sono capaci di assorbire in Italia (mediamente assorbono i 2/3 che in Italia, negli USA addirittura la metà!)
Se vi chiedete invano perché si dia questo fenomeno, la risposta sta nella scarsa concorrenza che caratterizza il mercato italiano (per fare un esempio, Alitalia continua ad agire in regime di monopolio sulle tratte italiane, così come Autostrade SpA ecc.).

Non basta la tabella del “Capital share”, comunque, per dar conto della relativa (oltre che reale) perdita del 10% subita dal “Labor share” italiano in quanto a capacità di “assorbimento” del PIL.
Una quota tanto abnorme del “Capital share” in Italia si è sempre data, non è fenomeno che appartiene agli ultimi decenni.

La risposta alla perdita del 10% secco da parte del “Labor share” la si ottiene esaminando l’ultima tabella, quella relativa al cd. “Government share” (ripetiamo, tasse e imposte. Le quali vanno considerate al netto della parte necessaria a “ripagare” l’enorme entità del debito pubblico italiano).

Bene, considerando la quota netta del “Governement share” (quindi, solo la parte dedicata a “investimenti”, spese e servizi) si scopre che essa in Italia ha subito dal 1970 al 2000 una crescita tanto spettacolare da risultare unica nell’ambito dei sei paesi esaminati; si è più che triplicata, quando altrove si è mantenuta praticamente costante.

In pratica, l’Italia risulta essere l’unico paese ad aver dato retta ai consigli degli “economisti”, addirittura ancor prima che questi si mettessero ad elargirli!
I risultati li abbiamo sotto gli occhi.

Ma siccome ho promesso, già nel titolo, che lo scopo di questo articolo non era di dare addosso a degli sfigati “economisti”, ma di suggerire una giusta (si presume) politica economica al PD, arriviamo ai suggerimenti.

Da quanto osservato, i suggerimenti si riducono a due soltanto:

1) Liberalizzazioni vere dei mercati; solo introducendo reale concorrenza tra le imprese si potrà ottenere che una parte consistente del PIL (quasi il 10%) vada poi a finire nelle mani di chi lavora.

2) Drastico ridimensionamento della “Government share”; questa si ottiene in un solo modo: riducendo tasse e imposte e, di conseguenza, tagliando i costi di “investimento” (che devono essere stati tra i più inefficienti mai visti nella storia, considerato com’è ridotta l’Italia) e quelli di spese e di molti servizi (inutili. O, meglio, utili solo ai politici in cerca di facile consenso elettorale).

Mimmo Forleo