Una curiosa diatriba, analizzata con ottica libertaria

17 Novembre 2011 0 Di Life

La diatriba del momento è rinvenibile qui e qui (sembra sia stata preceduta da un articolo della Mellone apparso su stampa, ma non esistendo un link e non avendo io letto l’articolo, sono costretto a non tenerne conto). Detto in sintesi, l’oggetto del contendere sono i rifugiati africani ospitati da qualche tempo a Palagiano e tutto il “bene” che si vorrebbe indirizzare nei loro confronti.

Non starò a valutare nel dettaglio le accuse che le sig.re Surico e Mellone si scambiano, anche perché, per quanto mi concerne, non può che candidarsi a perdente sin dall’inizio chi, invece di rispondere argomentando ad accuse argomentate, pensa di saltare felicemente tale ostacolo appellandosi al giudizio e alla condanna moralistica (che vorrebbe o ritiene condivisibile) dell’interlocutrice.

Comprendo che i valori, che cerco di attuare anche nel mio agire amministrativo possono dar fastidio a qualcuno perché non appartengono alla sua cultura ed al suo stile di vita, ma questi valori sono il mio DNA.

Con questa frase, posta in finale del suo articolo, per quanto mi riguarda, la Mellone si è dichiarata perdente in partenza.

Ma è un’altra la questione che voglio affrontare e alla quale, presumo, nessuna delle due contendenti vorrà dare una risposta. In nome di quale principio, entrambe, si ritengono autorizzate a prestare aiuto, o soccorso, a quei rifugiati?

Quasi sicuramente daranno entrambe come scontato che tale principio sia ravvisabile nei “valori” ai quali fa fugace accenno la Mellone. Ma già qui sorge un primo problema: la Mellone sostiene che quei valori sono suoi e suoi soltanto. E trova naturale escludere che possano essere condivisi dalla sua interlocutrice.

Proviamo a ricostruire il ragionamento che fa la Mellone (nel caso in cui dovesse trovarla errata, la ricostruzione, è caldamente invitata a rendere pubbliche le sue rimostranze):

“Quei rifugiati hanno diritto all’aiuto in nome dell’obbligo alla solidarietà.”

Devo ammettere che la Mellone avrebbe buon gioco, in quanto cattolica, e quindi credente in un Dio che rende possibile l’istituzione di un tale obbligo, ad escludere la Surico dalla condivisione del “valore” della solidarietà.

La Surico potrebbe controbattere, come ha fatto altre volte qui su Palagiano.net, che esistono innumerevoli dichiarazioni e carte attestanti l’esistenza di “diritti universali dell’uomo” e che è a quelle carte e a quei diritti che lei dà ascolto, non necessitando così di alcun obbligo derivante da un Dio.

A questo punto, escluso che possa darsi un obbligo alla solidarietà valido per tutti, per riportare a suo favore la bilancia, la Mellone potrebbe far notare che il suo impegno e quello profuso dalle organizzazioni da lei scelte, a differenza di quello della Surico e dell’Arci, è gratuito e, dunque, ancora una volta risulta essere “superiore” dal punto di vista morale.

Non so cosa potrebbe inventarsi la Surico adesso per riportarsi in pari, ma ho l’impressione che la Mellone avrebbe segnato un punto decisivo a suo favore.

Vediamo adesso cosa potrebbe far notare ad entrambe un soggetto terzo chiamato a dirimere la complicata vicenda della quale si sono rese protagoniste.

Intanto potrebbe far notare due cose: così come non esistono obblighi divini validi per tutti, allo stesso modo non è possibile far leva su “carte” o “dichiarazioni” di sorta atte a far rientrare per via “laica” obblighi che erano stati scacciati per via “teologica”. In altre parole, l’obbligo alla solidarietà non può esistere né per via teologica (se non per chi crede in un Dio) e neppure per via laica (se non per chi è disposto a spendersi gratuitamente), tale obbligo, in forme che non siano esattamente contenute nei limiti disegnati da un credo religioso e/o dall’impegno gratuito, esteso ad altri assume i connotati di una aggressione nei loro confronti.

Diamo una breve spiegazione di cosa debba intendersi per “aggressione” prima di portare a conclusione questo post.

Tanto la Mellone quanto la Surico sono liberissime di dare ascolto a qualsiasi imperativo morale in cui credono, ma a condizione che tale “ascolto” non pregiudichi in alcun modo la libertà di quanti non condividono i loro rispettivi imperativi morali o, può darsi il caso, non ne abbiano affatto.

La libertà va intesa in senso negativo, cioè libertà dalle intrusioni che possono venire da altri sotto forma di obblighi non sottoscritti. Allo stesso modo in cui dichiareremmo di aver subito un’aggressione nel caso in cui qualcuno attentasse alla nostra persona o ai nostri beni, parimenti dobbiamo giudicare aggressivi gli obblighi derivanti da “valori” morali da noi non condivisi.

So bene che, tanto la Mellone quanto la Surico, pensano di non aver personalmente portato alcun tipo di aggressione nei confronti di chicchessia. Anzi, dipendesse solo da loro, la diatriba che le vede coinvolte sarebbe rubricabile come una gara per aggiudicarsi il premio “Buon Samaritano 2011”. Ma so altrettanto bene che, per difendersi dall’accusa di aggressione, fanno entrambe affidamento sul ruolo giocato dallo Stato.

Lo Stato però, attraverso un sistema di leggi positive, attenta continuamente le poche e necessarie leggi che possiamo considerare naturali (quali il diritto alla propria vita, alla propria corporeità, ai propri beni economici) e risulta di fatto immorale (in quanto non rispetta l’assioma della non aggressione, che deve essere posto a base di ogni discorso riguardante libertà e giustizia).

Dubito, allora, che possa essere considerato giusto sul piano morale e non aggressivo l’atteggiamento di chi utilizza lo Stato come paravento delle proprie azioni. Sarebbe come ritenere giusto condannare il mandante di un’azione criminosa e mandare assolti i sicari.

Mimmo Forleo

PS. Allo scopo di prevenire obiezioni che potrebbero sembrare pertinenti, ma che non lo sono, ritengo utile precisare che non si possono ritenere corresponsabili di crimini perpetuati dallo Stato i suoi dipendenti. Lo sarebbero se fossero offerti loro impieghi alternativi sul libero mercato e, nonostante ciò, dovessero preferire l’impiego statale. Ciò vale per magistrati, forze dell’ordine ecc., la cui professione è monopolizzata dallo Stato.