In ricordo di Ronald Coase, pensando all’Ilva

In ricordo di Ronald Coase, pensando all’Ilva

9 Settembre 2013 4 Di Life

Ronald Coase: diritto di proprietà e tutela dell’ambiente

di Diego Menegon

Uno dei tanti meriti di Ronald Coase è quello di aver dimostrato come si possa ricorrere ad un approccio di mercato, fondato sui diritti di proprietà, per offrire una soluzione efficace alla tutela dell’ambiente.

Prima della pubblicazione dell’articolo “The Problem of Social Cost”, a firma di Ronald Coase, nell’ottobre 1960, il tema delle esternalità negative di un’impresa era stato trattato applicando gli strumenti di analisi elaborati da Arthur Cecil Pigou, autore di The Economics of Welfare.

Le soluzioni a cui questi conducevano, sulla base della divergenza tra profitto privato e costo sociale derivante dall’esercizio dell’impresa, si sostanziavano nella presunta necessità di tassare l’attività inquinante (imposte pigoviane), in modo da socializzare parte del profitto e disincentivare lo svolgimento dell’attività, oppure la fissazione per legge di divieti e standard ambientali.

Le conclusioni non potevano dirsi soddisfacenti per Coase, che evidenziava come le decisioni conseguenti (divieti, standard o imposte) non erano fondate su un corretto contemperamento e una adeguata valutazione degli interessi in gioco.

Anziché chiedersi come si possa evitare che un’impresa rechi un danno a una comunità con le sue emissioni, occorre domandarsi come mettere a confronto e regolare il rapporto i soggetti coinvolti, per rendere possibile e conveniente la loro coesistenza sul territorio.

Coase porta il caso di un pastore che attraversa con il proprio gregge un terreno coltivato. Il danno che reca al raccolto, per ipotesi, è inferiore al costo di una recinzione che impedisca l’accesso all’allevatore. Secondo Coase, l’agricoltore e l’allevatore hanno tutto l’interesse a pervenire ad un accordo economico. Il primo può, infatti, riconoscere al secondo un ristoro nella misura in cui il danno causato è inferiore al profitto che ricava dall’attraversamento del terreno.

Tutte le attività e tutti gli usi di un suolo comportano un’utilità all’utilizzatore. Le interferenze tra due attività possono essere risolte dai proprietari ponendo a confronto l’utilità che le parti ricavano.

Un’esternalità negativa reca un pregiudizio al valore dei diritti di proprietà dei soggetti che la subiscono. Prendiamo le esternalità più comuni di uno stabilimento: il rilascio di fumi in atmosfera e il rumore. Entro un certo grado di emissioni e inquinamento acustico, tuttavia, i proprietari che le subiscono possono trovare soddisfacente un accordo che riconosca ad essi una somma di denaro; d’altro canto, anche l’imprenditore verserà di buon grado una somma fintantoché lo svolgimento dell’attività, nelle condizioni di esercizio pattuite, renderà più di quanto dovuto ai residenti con i quali l’impresa interferisce. L’equilibrio, ossia la quantificazione delle esternalità negative ammesse e la somma riconosciuta a chi le subisce, sarà tale per cui un maggior grado di inquinamento non sarà tollerata dai residenti se non dietro un compenso che all’imprenditore non conviene più corrispondere in quanto superiore all’utilità marginale derivante dalla possibilità di rilasciare una quantità superiore di emissioni.

A un benpensante può sembrare politically uncorrect un approccio di questo tipo, che sembra mercificare il diritto all’ambiente. Eppure è assodata la necessità di far convivere attività che possono interferire tra loro, allevamenti e terreni agricoli, la pesca e il trasporto marittimo, bar e condomini, fabbriche e case private.

Vietare l’una o l’altra non è possibile. Le soluzioni che implicano un intervento pubblico non sono, del resto efficienti. Non sono, infatti, basate su informazioni essenziali quali l’utilità che i soggetti traggono dall’esercizio della propria attività.

Secondo Coase, se i fattori di produzione sono considerati diritti, diventa più facile capire che il diritto a fare qualcosa con effetti dannosi è anch’esso un fattore di produzione e dunque ha dei costi e dei limiti.

Uno dei limiti della teoria di Coase è il fatto di non considerare gli effetti globali dell’inquinamento e i conseguenti costi di transazione. Paradossalmente, si ritiene che proprio il Protocollo di Kyoto, adottato per affrontare con un approccio globale la questione ambientale, sia in qualche modo ispirato alle intuizioni di Coase. Sicuramente l’istituzione di un meccanismo di scambio delle emissioni di CO2 contiene elementi di mercato che rispondono alle logiche illustrate dall’economista, incentivando le tecnologie più efficienti e l’ottimizzazione delle quote da parte dei possessori. Le uniche pecche sono la determinazione per via politica dei quantitativi scambiabili, che non necessariamente rispondono all’ottimo, e la totale trascuratezza della maggiore o minore incidenza delle esternalità negative sui singoli individui.

Le migliori opportunità di applicazione delle teorie di Coase si riscontrano, invece, su piccola scala, ad un livello in cui è possibile la negoziazione dei diritti di proprietà tra individui per la reciproca soddisfazione dei propri interessi. Anche se applicato su piccola scala, i risultati conseguibili su scala globale potrebbero essere migliori di quelli raggiungibili attraverso i tradizionali strumenti di politica ambientale.

A questo livello è ancora di gran lunga più diffuso un approccio “command and control” che comprime la libertà di iniziativa senza per questo tutelare il diritto di proprietà esteso alla qualità dell’ambiente salubre né impedire il sorgere di fenomeni NIMBY volti a contrastare la realizzazione di impianti e opere con un impatto sull’ambiente, per quanto capaci di creare valore.

http://www.leoniblog.it/2013/09/09/ronald-coase-diritto-di-proprieta-e-tutela-dellambiente/