Liberalizzare & Privatizzare

Liberalizzare & Privatizzare

1 Marzo 2012 2 Di Life

Nel suo ultimo post Daniele Di Pierro si dice in disaccordo con alcuni concetti che avrei espresso e, nello stesso tempo, d’accordo con altri che non ho mai avanzato. Forse non riesco ad essere abbastanza chiaro quando scrivo o forse le cose che dico sono talmente “nuove” da costringere l’interprete a doverle semplificare e “incastonare” nel già udito, fatto sta che non mi riconosco affatto in molte delle affermazioni che Daniele mi attribuisce.

Comincio col dire che non sono affatto un sostenitore della teoria della concorrenza perfetta. Quella teoria è buona per i manuali, ma è del tutto inutile nella pratica. Nella realtà non può darsi concorrenza perfetta, è sufficiente confrontare due lavoratori qualsiasi per comprendere che ognuno di loro è in possesso di caratteristiche peculiari – pur svolgendo la stessa mansione – tali da renderlo di fatto monopolista rispetto all’altro. Se questo è vero, ed è vero, la ricchezza non si origina dalla concorrenza tra soggetti identici ma dalla concorrenza tra soggetti dotati ognuno di una propria peculiarità. Questo porta alla specializzazione che consente l’accumulo di risparmio e quindi alla ricchezza. Dal mio punto di vista, allora, il monopolio è un bene; sempre che non sia dovuto a misure calate dall’alto – privilegi – che possono venire solo dai governi.

Devo inoltre precisare che la ricchezza di oggi non è misurabile solo attraverso il miglioramento tecnologico che ci ha condotti dalla cabina telefonica agli smartphone. Essa ricchezza è anche quantitativa ed è desumibile dalla crescita verificatasi a livello di Pil pro-capite; se ad ogni individuo vivente oggi, per dire, è possibile attribuire 140 unità (di una immaginaria misura di valore) mentre a un individuo vivente nel 1970 se ne possono attribuire solo 100, è evidente che la ricchezza è cresciuta del 40%. Life, che gli anni ’70 li ha vissuti come me, sa bene a cosa mi riferisco.

Mettendo insieme queste due considerazioni, ne viene fuori che la concorrenza non contribuisce soltanto al miglioramento tecnologico. Essa contribuisce alla specializzazione lavorativa e – anche a parità di livello tecnologico – alla produzione di maggior ricchezza. Non serve dunque a nulla, Daniele, dire che “Le aziende, giustamente, cercano il profitto e questo non sempre coincide con l’interesse dei consumatori.”; il profitto dell’azienda non deve mai coincidere con l’interesse del consumatore, si tratta di interessi contrastanti. Il consumatore, ad esempio, vorrebbe poter avere gratis tutto. Ti sembra possa esserci un’azienda disposta ad accontentarlo?

I beni prodotti dalle aziende sono beni scarsi, come tutti i beni di questo mondo, e hanno necessariamente un prezzo da pagarsi per ottenerle. L’interesse del consumatore – che non è altro che profitto anch’esso – deve essere quello di selezionare nel mercato le aziende capaci di soddisfare la sua necessità riguardo a un bene col più basso prezzo possibile. È qui che interviene la cosiddetta “mano invisibile” del mercato, consentendo la sopravvivenza delle sole aziende capaci di soddisfare il consumatore. Il vero padrone allora è il consumatore, altro che le aziende…

Lungi da me poi l’aver mai sostenuto che lo Stato deve intervenire nel mercato. Il mercato, lo abbiamo appena visto, è capace di regolarsi da solo e ha un solo padrone: il consumatore. Ogni altro intervento esterno al mercato si traduce in un vero e proprio esproprio di sovranità a danno del consumatore. E non c’è giustificazione possibile per questo tipo di intervento, neppure quella spesso invocata e riguardante un supposto “interesse generale” da salvaguardare. La Scuola Austriaca è molto chiara in proposito, ma siamo da troppo tempo abituati a dare retta a scuole di pensiero “economico” che di economico non hanno neanche l’ombra.

Ma, visto che in questo articolo mi riprometto di rispondere a Daniele e non di tenere un seminario “austriaco”, torniamo a parlare di privatizzazioni e liberalizzazioni.

Le privatizzazioni in Italia si sono date perché la politica è stata costretta a farle. Sono state di misura considerevole, solo la Gran Bretagna se non sbaglio ha fatto di meglio, ma erano frutto della contingenza: nel 1992 l’Italia era messa come oggi la Grecia e nel 1996 vi era bisogno di rientrare in fretta nei parametri stabiliti dall’UE per poter entrare nell’Euro.

Privatizzare significa trasferire dal pubblico al privato la proprietà di imprese, immobili o altri attivi patrimoniali. Checché ne dica Life, il quale sostiene di vedere ancora una differenza tra destra e sinistra in campo economico, le privatizzazioni provocano sempre fortissimi mal di pancia in Italia. Tanto a destra quanto sinistra sembra prevalere l’assunto che pubblico è bello e privato sarebbe cattivo. Ma pubblico e privato indicano solo la proprietà di qualcosa, non ci rivelano nulla a proposito dell’uso che viene fatto di quel qualcosa. L’unica differenza è data dal fatto che i privati potranno essere anche mossi dall’avidità di guadagno, ma la loro avidità trova il suo limite nella volontà espressa dal consumatore di assecondare o meno quell’avidità. La stessa cosa, purtroppo, non avviene nel pubblico.

La gestione pubblica non genera profitti, che verrebbero limitati dalla volontà del consumatore; genera invece sprechi che vengono incoraggiati dagli elettori, i quali si illudono di ricevere gratuitamente dei servizi, e provoca anche profitti spropositati a favore dei fornitori della PA. Una ricerca condotta una decina di anni fa dall’Università di Milano-Bicocca fece emergere che nelle poste, nelle ferrovie e nel trasporto pubblico locale i costi di produzione sostenuti erano sistematicamente superiori del 50% a quelli realmente necessari.

Questo è quello che avviene nei settori che potrebbero essere privatizzati, e che devono quindi in qualche modo confrontarsi col mercato; immaginate adesso cosa accade in quei settori dove lo Stato vanta il monopolio e dove i funzionari non devono dare conto al mercato neppure indirettamente…

Di recente si è tenuto il referendum sull’acqua, settore in cui – a detta dei proponenti il referendum – dobbiamo considerare immorale che alla remunerazione del capitale investito venga riconosciuto un saggio di interesse del 7%. Mi verrebbe da chiedere agli stessi proponenti se considerano moralmente impeccabile accettare uno spreco pari al 50%…

Sono questi fatti a dimostrarci che il settore pubblico, in nome di un presunto interesse collettivo, opera per costruire fortune private immeritate e, al contrario, il settore privato, deprecato perché favorirebbe l’avidità egoistica, in realtà persegue il vero interesse collettivo.

Ma perché il mercato possa davvero operare nell’interesse di tutti deve necessariamente essere tenuto il più lontano possibile dal governo e dalla politica (o dai politicanti, come direbbe Life). Le lobby e i cartelli di cui dice Giovanni, non troverebbero modo di organizzarsi se non esistesse l’orecchio attento e devoto dei governi pronti a soddisfare le loro richieste. In nome dell’“interesse generale”, si capisce…

Mimmo Forleo

PS. L’immagine scelta per illustrare l’articolo è relativa ai bunker (migliaia) fatti costruire in Albania da Enver Hoxha quando diceva di temere un’invasione armata da parte dei paesi capitalisti. È a suo modo emblematica dell’uso che i governi possono fare dei soldi dei contribuenti. Giuro che non l’ho scelta per fare dispetto a Life.