Una curiosa questione di democrazia

13 Agosto 2009 0 Di Life

seguito della pubblicazione del mio ultimo articolo su palagiano.net, è nata una curiosa discussione circa l’opportunità di discutere pubblicamente, o meno, su quanto accade nella vita di un partito.
Abbiamo assistito (uso l’“abbiamo” abbastanza impropriamente, dato che solo una delle obiezioni è stata di tipo pubblico, l’altra, definibile come quella del “lavare i panni in famiglia”, ha avuto come scenario le quattro pareti di una sezione), così, al rappresentarsi di due obiezioni al mio “modo di fare”: la prima, di Pinuccio Favale, mette l’accento sulla differenza di metodo col quale vengono affrontate le discussioni a seconda che avvengano nel Pdl o nel Pd; la seconda, condivisa da buona parte del coordinamento cittadino del Pd palagianese, considera dannose tout court per l’immagine del partito tutte le discussioni che non si tengano nelle sedi definibili come “competenti”.
Al bando dunque, stando a tali obiezioni, ogni intervento polemico che utilizzi sedi diverse da quelle consentite.

La prima contro-obiezione che mi viene da porre è proprio su tale “consentito”: consentito da chi?
Si potrebbe pensare al buon senso. E chi stabilisce, in questo caso, cosa è buon senso e cosa non lo è?
Oppure, si potrebbero chiedere lumi agli organi dirigenti. Ma non è proprio tra coloro che svolgono ruoli dirigenziali all’interno del Pd che si possono contare copiose le dichiarazioni rilasciate “fuori dalle sedi competenti”?
Lascio al lettore eventualmente interessato il compito di sbizzarrirsi nel cercare altri modi sui quali fondare il “consentito” in questione; io, per parte mia, passo a fare un altro ragionamento.

Il Pd, nelle intenzioni, nasce come partito “nuovo”, non tanto perché mette assieme due componenti storiche della politica italiana (l’ex comunista e la cattolico-democratica), ma perché si dice avviato su una strada tesa a superare qualsivoglia ipotesi politica che non sia di matrice sinceramente liberale.
Se le intenzioni sono queste, appare difficile sostenere che si possa dar vita a tale partito senza che al suo interno confluisca almeno una terza componente: quella composta da quanti il liberalismo non l’hanno scoperto all’ultimo momento.

Posto che, rifacendosi unicamente alle tradizioni delle due componenti prima menzionate, si può al massimo sperare di rifare un partito-chiesa, diventa essenziale, come abbiamo visto, fare pratica di liberalismo e di democrazia in maniera concreta.
Detto per inciso, l’avanzare della cosiddetta “antipolitica” si traduce in una richiesta abbastanza sconclusionata nei modi, e per questo tipicamente italiana, di maggiore democrazia e partecipazione.
La nascita del Pd doveva segnare il superamento delle tradizioni comunista e cattolica proprio sotto il versante della democrazia in quanto, entrambe, storicamente dimostratesi deficitarie al riguardo.

(Immagino già le reazioni di chi, provenendo da una tradizione che si definiva pomposamente “democratica”, ci terrà a sottolineare come la parola “democrazia” fosse presente fin nel nome della vecchia DC; non me ne curo, è fin troppo facile dimostrare quanto il termine “Democrazia cristiana” costituisse un ossimoro consentito solo in Italia. Paese a liberalismo tanto limitato da costituire un eccezione in tutto il mondo occidentale.)

Lanciare una sfida in senso liberale provenendo da cotanta tradizione appariva, in effetti, un’enormità. Almeno agli occhi dei liberali veri.
Proprio per superare la reazione di incredulità che ci si aspettava, alla sfida originaria, di per sé già proibitiva, ne venne affiancata un’altra: quella del partito “aperto”.

L’aprirsi del partito all’esterno è sancito nello Statuto, non si possono coltivare equivoci in proposito, e va in due direzioni: da una parte, dare massima pubblicità alla vita di partito: è consentito ai non-iscritti (definiti come “elettori/elettrici del Partito Democratico”) di “avere accesso alle informazioni su tutti gli aspetti della vita del partito” (art. 4, comma f) e di “prendere parte alle assemblee dei circoli” (art. 4, comma g); dall’altra, rendere partecipata, sempre dai non-iscritti, la composizione dei gruppi dirigenti del partito (art. 5, comma a) e la scelta delle candidature a cariche istituzionali elettive (art. 5, comma b).

Capisco come tutto ciò possa apparire indigesto a quanti provengono dalle tradizioni sopradette, ma è pure vero che nessuno li ha obbligati a tesserarsi in un partito che ha voluto darsi tali regole.
In ogni forma di convivenza civile, al di là della storia o del prestigio personali, sono le regole a fare da sostanza a tutto il discorso.
Fintanto che tali regole persistono, imbarcarsi su discussioni che possono apparire amene solo a chi non ha neppure letto lo Statuto, e se l’ha letto l’ha mal compreso, comporterà sempre la medesima domanda: di cosa stiamo parlando?