Intervista a Pietro Ingrao
4 Giugno 2009Liberazione 31 maggio 2009
Conversazione con Pietro Ingrao su elezioni, politica, compiti della sinistra
Pietro Ingrao: «Voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato»
Dino Greco e Cosimo Rossi
«Forse sbaglio, devo capire meglio: ma il cammino della mia vita e però anche tante lotte che ho vissuto intensamente
insieme con Fausto mi sembra che seguivano visioni del mondo diverse dal tanto peggio tanto meglio. E mi interrogo su quale è il mutamento in campo che chiama Fausto a questi nuovi pensieri”. Un sorriso spontaneo si allarga in volto a mitigare le parole di Pietro Ingrao, di quei sorrisi paterni che esprimono un’incredulità piena di benevolenza, come sono anche il suo affetto e l’attuale dissenso nei confronti di Fausto Bertinotti e delle sue notazioni (in una intervista all’Unità del 7 maggio scorso) a proposito della necessità di far “tabula rasa” della sinistra, cosicché possa rinascere “come una fenice” dalle proprie ceneri. Una provocazione, ma tutt’altro che astratta. E men che meno improbabile. Domando a Ingrao che pensa.
Voglio riflettere. Fausto evoca questioni di prospettiva e di teoria ardue, di grande portata. Io non ho sicurezze sui fondamenti dei temi che solleva. Avrei da porgli domande, forse anche su nodi teorici. Ma sento qualcosa che mi chiama altrove: come se non avessi tempo. Fra giorni l’Europa va al voto e tante cose intorno a noi ci dicono come la prova sia pesante.
Temi che ci sia indifferenza sul voto?
Temo che molti non abbiano chiari la portata di questo voto e lo stato delle cose in cui avviene. C’è una crisi dell’economia mondiale che qualcuno paragona a quella fatale del 1929. E l’Italia è fra i paesi più esposti: questa Italia che a capo del
governo ha oggi un conservatore, per non dire un reazionario di sette cotte. Non mi turbano le sue relazioni con la giovinetta Noemi, che mi sembrano così melanconiche, persino patetiche. Mi spaventa il deficit di iniziativa, l’arretratezza del suo sguardo di fronte all’incalzare della crisi mondiale. Questo è il Berlusconi che nuoce alla nazione, e che tuttavia porta a casa
un mucchio debordante di voti. Tale è oggi la situazione drammatica del potere pubblico in Italia, da cui vengono le mie ansie.
Primo punto: temo l’assenza dal voto, l’astensione. Mai come in questa ora difficile abbiamo bisogno che votino in tanti, e che votino bene. E non solo perché dobbiamo dare un colpo a questo governo conservatore oggi così ampiamente maggioritario nel Paese, ma perché oggi – ora assai più di ieri – abbiamo necessità di un peso e di un volto nuovo dell’Italia in Europa
Abbiamo bisogno di un voto italiano che incroci nel nuovo Parlamento europeo le correnti progressiste, capaci di leggere il capitalismo mondiale che ora abbiamo dinanzi, nella dubbia e oscillante fase che esso attraversa. E qui l’oggi ha bisogno di un sapere antagonista che sappia intendere i nuovi terremoti che segnano l’Occidente, l’Asia e l’Africa. Provincialismi non ci sono più permessi. Berlusconi è un piccolo reazionario di fronte a queste enormi scadenze. Scopre adesso – meno male! – che il Parlamento italiano è pletorico. E che iniziativa ha preso – da premier! – per snellirlo e articolarlo? E sa dare una lettura moderna e attiva del sindacato e del conflitto di classe? E se non fa questo di che futuro parla?
Ma a te pare che ci sia oggi nell’opposizione antiberlusconiana una sinistra coesa e anche audace nella costruzione
di una alternativa?
Io vedo un lavoro grande che ci sta dinanzi, e sento aspramente il peso della divisione con cui la sinistra di classe va al voto.
Ricordo però come eravamo divisi – e persino lontani – quando – a metà degli anni Trenta – cominciammo a costruire lo schieramento e l’unità della Resistenza. Eppure reggemmo alla prova. Inventammo – nella differenza – linguaggi e istituzioni comuni e anche cittadinanze comuni, fratellanze… Per le nuove prove di oggi servono come il pane pari ardimento: e prima di
tutto c’è bisogno di un’avanguardia che ridia fiato alla lotta di classe nel suo senso più largo, prima di tutto nei luoghi di
lavoro, nella sede cruciale e diretta dello scontro di classe: e insieme nelle sedi in cui maturano l’immaginario, il simbolico,
che sono diventate oggi molto più penetranti: nel simbolico e nel politico e negli intrichi quotidiani che ne sgorgano.
Il voto significa però anche marcatura delle differenze.
Sì, e tuttavia io ho ancora una forte paura dello sparpagliamento degli elettori e soprattutto temo che una frantumazione
condanni la sinistra a una drammatica esclusione dal nuovo parlamento europeo. Non so come si possa affrontare la questione senza generare inutili inasprimenti dal momento che ormai talune scelte son fatte. E tuttavia mi chiedo: come possiamo dire e raccomandare che bisogna assolutamente evitare conflitti penosi nella sinistra o uno sparpagliamento infecondo o addirittura l’assenza? Non sto chiedendo impossibili unanimismi. Sottolineo due obbiettivi essenziali, primari: un voto contro Berlusconi,
e poi spero, mi auguro, un voto di sinistra. Io dichiaro la mia preferenza per Rifondazione, la forza che a sinistra mi sembra più solida in campo. Perchè non credo possibile ricominciare un lavoro di riunificazione della sinistra che di essa faccia a meno. E io voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato.
Lo scrivo già prima di quel mio ritiro nella cabina elettorale. Lo discuto nelle sale, nelle piazze, nelle case, poiché senza tale confronto aperto di identità non c’è costruzione di volontà pubblica.
Fatto sta che la disapprovazione del popolo di sinistra nei riguardi della classe politica sovente non si trasforma in impegno per riappropriarsi della politica, bensì in rinuncia…
E difatti dobbiamo rilanciare una grande, orgogliosa campagna che chiami alla scesa in campo, alla partecipazione, alla politica attiva. Consentimi un ricordo. Ho viva nella memoria una data, la tragica estate del 1940, dopo che i tedeschi avevano invaso Belgio e Olanda volti a Parigi per quella tragica e trionfale sfilata Champs Elisées. E il 10 giugno Mussolini aveva
annunciato la dichiarazione di guerra a fianco dei nazi dal balcone di Palazzo Venezia. Ricordo come fosse oggi la domanda
che in quei giorni tragici pulsava ostinata nella mia mente: “Che faccio?”. Poi dentro di me maturò quella risposta dura ed elementare “Non ci sto”. Nel senso che si sta dentro la lotta. Non ci si ritira dalla prova..
Tu ricordi catastrofi, conflitti, che hanno incendiato il globo. Qualunque paragone è certamente inappropriato. Ma cominciamo ugualmente di qui, per sottolineare quali sono, a tuo avviso, gli snodi cruciali della vicenda della sinistra italiana…
Penso al mio tempo. Sono nato nel 1915, quando l’imperialismo approdava all’epoca delle grandi guerre mondiali. Prima fu la dura lotta di trincea del triennio 1915 1918. Poi – alla fine dei torbidi anni Trenta – fu lo scatenarsi del nazismo nel mondo e la risposta straordinaria della Resistenza, questo nome che qualcuno ora vorrebbe cancellare e che ebbe un’espressione così ardita e ricca d’invenzione anche in Italia. Il comunismo italiano ne fu attore cruciale: nei suoi volti molteplici in termini di soggetto politico, soggetto sindacale, classe dirigente, movimenti di idee, vicende della cultura. Quella è stata un’Italia vigorosa, forte, ricca…
Ed è stata, appunto, il paese che ha visto affermarsi il più grande partito comunista occidentale. Di dove traevano
origine la vitalità e la forza della sinistra e del Pci in particolare?
Quella forza rossa, di sinistra, per come l’ho conosciuta io e l’abbiamo conosciuta tutti viva e attiva nel mondo, aveva due gambe. La prima era la capacità di incidere nel concreto del vissuto quotidiano: il suo legame con la storia del pane che si portava a casa. Qualcosa di costruito con grande fatica e concretezza, che si esprimeva attraverso la lotta sociale e l’iniziativa politica, e la presenza articolata non solo – e prima di tutto – nel luogo di lavoro, ma anche – e fitto – nel territorio, nelle contrade, nelle città, nei borghi. L’altra gamba era la convinzione d’essere parte di una dimensione non solo nazionale ma addirittura mondiale della battaglia: e d’essere portatori di una visione generale del mondo, d’una ideologia. Il sindacato, la sezione, il circolo, il municipio – come li ho conosciuti io – erano tutti luoghi molto segnati da questa articolazione e da questa complessità che intrecciava la lotta immediata di ogni giorno alla convinzione di rivoltare il mondo.
Ma ora si sono sgretolate anche l’articolazione locale e del tessuto di rappresentanza, quel radicamento delle organizzazioni di massa, del partito, attraverso cui i bisogni immediati si allacciavano con la strategia generale, dalla fabbrica al quartiere, dalla scuola al municipio…
Appunto: la presenza articolata del soggetto liberatorio. Per fare un esempio: ricordo come fu ricca, multipla l’iniziativa dei sindaci delle città rosse; e come erano presenti nella vita quotidiana a risolvere problemi del qui e ora, e come intrecciavano
le questioni del lavoro con le altre dimensioni dell’agire di ogni giorno.
Allora, in quella esperienza voi vi trovaste di fronte la Chiesa di Roma, al suo massimo livello. E non era vostra
amica. Come agiste?
Cercammo testardamente il dialogo. Nonostante la scomunica. E riuscimmo a generarlo. Evoco un’esperienza personale.
A Firenze esisteva un ramo di cattolicesimo avanzato, che aveva come guida e simbolo una figura come Giorgio La Pira. Con lui, con Ernesto Balducci vissi una ricerca confidente, schietta e sincera. Balducci giunse a fare parlare me, ateo dichiarato, dal pulpito della sua chiesa. E il mio dialogo con i cattolici – in altri giorni – proseguì con altri atei come la Rossanda, Tronti e altri
in un convento sulla collina di Fano dove un monaco singolare invitava ogni anno a dialogare credenti e atei dichiarati: sulle cose del mondo. E potrei raccontarti ancora del mio dialogo con Dossetti, indimenticabile. Naturalmente c’erano alti prelati, come il cardinale Ottaviani, che erano anticomunisti feroci. Eppure anche con lui il compagno Franco Rodano dibatteva…
E poi, come si produsse una crisi di portata tale da condurre, oltre che al naufragio elettorale, al naufragio di un’esperienza invece così ricca e complessa?
Ci fu un passaggio storico che segnò l’inizio del cambiamento, ed è la sconfitta degli anni Ottanta, che vide la caduta del leninismo, il crollo dell’Urss, la sconfitta di Mao, e anche il tracollo di quei partiti che in qualche modo erano legati a quella storia. Attenti: noi comunisti italiani avevamo un nostro volto, ma discendevamo da quel corpo. E la seconda metà del secolo fu complessa e sconvolgente. Prima ci furono le vicende straordinarie del Sessantotto e, ancor più in Italia, del Sessantanove.
Quell’anno in Italia la sinistra di classe – con Trentin e Carniti alla testa – toccò una vetta straordinaria. Ho ancora vivissimo
il ricordo di cosa furono nell’Italia le lotte operaie: quelle – così innovative – del ’69 che misero in ginocchio la Fiat e videro calare a Roma un corteo davvero infinito di tute blue alle soglie di una vittoria folgorante… Dopo però venne l’inizio della sconfitta. La vivemmo anche nelle nostre roccaforti del Nord. Ma il crollo fu su scala internazionale. E non fu solo la sconfitta dell’Urss, con l’avventura sciagurata dell’Afghanistan. Non resse più l’ipotesi leninista, che era stata la dottrina su cui si erano formate generazioni come la mia, illuminate da pionieri straordinari e originali del comunismo come Gramsci, Terracini, e
poi Togliatti, l’uomo del compromesso di Salerno e del grande Partito Comunista di massa italiano…
E perché un comunismo italiano con queste radici e con quella dimensione di massa entra in crisi?
Perché vennero al pettine nodi su cui il leninismo e ancor più lo stalinismo e poi il maoismo, avevano dato una risposta che non resse alle prove della storia e che voleva una settaria concentrazione del potere al vertice. E intanto scattava la controffensiva conservatrice: Agnelli prende l’iniziativa, poi il binomio Reagan-Tatcher trionfa su tutti i piani.
Ma non ci sono anche delle cause endogene della crisi? L’articolazione territoriale che si prosciuga, la rappresentanza
sociale che si sgretola mentre il lavoro si balcanizza, la sostanziale accettazione della moderazione salariale e del paradigma sviluppista mentre i contratti si precarizzano. Da questo punto di vista non sarebbe giusto osservare
che la crisi della sinistra comincia anche prima degli anni Ottanta?
Sì. Ho detto che la crisi forte sgorgava dalle radici: il leninismo. Lo so. È un grande tema. E io qui posso solo mettere qualche breve nome. E’ l’idea leninista del soggetto che non regge alla prova della storia. La strategia della rivoluzione concentrata nel vertice di partito mobilitò masse straordinarie in Europa e nel mondo e le chiama a conquistare il comando in paesi sterminati.
Ma non le rese compartecipi del governo, che restò nelle mani di un’élite straordinaria, ma pur sempre un’élite, che non regge alla luci e al passo inaudito del mondo. E allora crolla.
Ma anche il capitalismo insegue le sue crisi. Oggi è a una nuova prova. A partire dagli Stati uniti, stiamo assistendo
a una dinamica davvero micidiale e brutale. Prendiamo il caso Chrysler. Il padrone fallisce, interviene il manager di un altro grande gruppo come Marchionne e si mette d’accordo con Obama, l’azienda viene quindi rilevata a spese
dei contribuenti americani e dei lavoratori, che ci mettono una barca di fondi pensione, per un totale pari al 55
per cento del patrimonio azionario. Si potrebbe immaginare che di conseguenza si modifichi l’assetto sociale della proprietà. Invece non cambia nulla. Anzi: in un Cda di 9 persone ne entra una sola in rappresentanza del 55 per cento di azioni dei lavoratori, che in più cedono salario, rinunciano alle ferie e acconsentono a una moratoria sugli scioperi fino al 2015. Al che emerge in modo eclatante il rischio che la straordinaria crisi del capitalismo e del mercato non produca alcuno sbocco a sinistra, ma piuttosto porti a una gigantesca rivoluzione passiva che si risolva con una nuova razionalizzazione capitalistica.
Ma io non sono affatto convinto che ci sia un automatismo per cui, data la crisi del capitale, si realizza un avanzamento nella relazioni sociali e del movimento operaio. Non è assolutamente così. Nella mia vita ho già vissuto momenti di crisi onomico-sociale profonda che si sono risolti con vittorie anche clamorose del capitalismo. Certamente è stato così nel primo opoguerra in Italia, quando, attraverso lo scontro anche armato, si affermò la reazione bruta del fascismo, che spazzò via con la forza uno
schieramento delle forze di sinistra che non era affatto poca cosa. Se poi guardiamo agli anni Trenta troviamo dimostrazioni ancora più drammatiche. C’è la spaventosa crisi mondiale del ’29. E, nel cuore d’Europa, la Germania esce da quelle crisi con lo scatenarsi del nazismo.
Mutatis mutandis, vedi in qualche misura delle analogie e dei paragoni possibili con la situazione attuale?
No. Non ci sono riproduzioni meccaniche. La rovina inaudita che hanno portato con sé il nazismo e il fascismo è un unicum. La differenza fra quella violenza nera e l’oggi pallido sono tuttora enormi. E’ vero, invece, che il determinarsi di una crisi della portata di quella cui stiamoassistendo non significa affatto che vi sia automaticamente una riscossa del mondo del lavoro. La partita, in questo senso, è tutta drammaticamente aperta.
Sennonché si gioca con l’handicap di una sconfitta storica ma ancora cogente della sinistra: l’avversario ha nquistato
non solo la fabbrica, ma i linguaggi, la concezione del mondo…
E anche i mezzi con cui le idee si esprimono. Pensiamo, per esempio, a che grande rivoluzione è stata la televisione. La grande invenzione della sinistra, in questo senso molto europea, era stata invece quella combinazione tra il soggetto del cambiamento globale e la capacità di farlo vivere nelle risultanze quotidiane. Oggi sono in crisi tutti e due i rapporti, tutti e due i linguaggi: quello per la narrazione della vicenda quotidiana e quello per la narrazione di un’idea della rivoluzione, della di trasformazione dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista la cosa che temo di più è la frantumazione della nistra,
cioè la perdita della sua capacità di ricondurre l’azione politica a un’idea e a una strategia mondiale del soggetto.
Il bisogno di riallacciare un discorso generale sulla trasformazione su cui insisti sconta l’annichilimento e la ispersione
delle culture politiche della sinistra. E allora non credi che alla sinistra occorra, per così dire, prendere di sotto il sacco per rivoltarlo sul tavolo e affrontare i grandi temi ideali e culturali: pace, disarmo, libertà, differenza, uguaglianza, diritti, natura, produzione…; tutti quei filoni di ricerca e di impegno che in più delle volte invece la politica abbandona a se stessi o assume solo in modo episodico e utilitaristico, senza tesserli nella trama di una soggettività politica nuova?
Lo so. Lo abbiamo appreso dolorosamente, sia pur a tratti, e con dure mancanze. Se non diamo alla lotta questo fiato, questo respiro, non si riesce a intervenire nemmeno nell’immediatezza della lotta quotidiana, che pure ritengo così vitale. Se in Italia la sinistra ha avuto quella sua originalità e quella forza è stato perché ho guardato alla terra natale e insieme ai rivolgimenti nel vasto e cangiante mondo. Mi ricordo, ad esempio, cos’è stata in Italia nei nostri paesi la passione per la guerra – così lontana – in Vietnam. Ricordo la reverenza con cui- in un mio viaggio in Vietnam- visitammo la casa di Ho Chi Min: il silenzio assorto
con cui guardavamo quei nudi cimeli di una storia straordinaria: l’emozione senza parole su eventi pure così lontani e diversi da noi. Allora in Italia la guerra in Vietnam giunse anche sulla bocca di un cantante popolare, Gianni Morandi, persino in quella Tv quasi tutta in mano ai conservatori…
Ancora il problema del 4 per cento, per concludere di dove si era cominciato. Con quel 4 per cento cosa dovrebbero
fare Rifondazione e le altre forze riunite nella lista anticapitalista e comunista?
Superato il guado elettorale, devono iniziare un lavoro di riunificazione della sinistra: un progetto plurimo, ma che mantenga ricca e fertile la propria dimensione di soggetto politico. Che significa l’unità e la dialettica insieme: la democrazia come risorsa, non come fastidio.